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Alcune lezioni che si possono trarre dal disordine, applicate alle supply chain

novembre 21, 2025

 

Questo autunno 2025 si dipana in un percorso tortuoso tra eventi (pochi) e non-eventi (tanti) che contribuiscono solo ad incrementare la confusione e ridurre la leggibilità e la prevedibilità del contesto. Pensiamo alla combinazione tra la levata di scudi americana contro l’applicazione delle regole europee alle grandi aziende americane (CSRD, CSDDD, ma anche normativa privacy e regole in materia di protezione della salute), cui ha fatto seguito l’ulteriore passo europeo verso la revisione della normativa sul Green Deal, in direzione di una riduzione sostanziale dell’ambito di applicazione e di un allungamento dei tempi di applicazione, e dall’altra parte il varo cinese delle regole in materia di sostenibilità, che riflettono l’originaria impostazione europea e troveranno applicazione anche alle imprese non cinesi. Pensiamo al processo di digitalizzazione dei flussi finanziari rappresentato dalla diffusione delle stablecoins e perseguito anche dai progetti di divisa digitale della BCE, contrapposti però all’acquisto di oro da parte delle banche centrali di tutto il mondo: tentativi (divergenti?) di gestire contemporaneamente la dipendenza del sistema finanziario internazionale dal dollaro, la necessità della sua svalutazione, i dubbi sulla sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico americano e magari anche l’incrocio di tutti questi temi con quelli più platealmente geopolitici: transizione dal vecchio “ordine basato sulle regole” (cioè su un consenso sufficientemente diffuso) a un disordine basato semplicemente su una potenza militare che è discontinua rispetto a quella economica.

Il venir meno di una cornice leggibile determina l’incertezza e la volatilità che condizionano il comportamento delle imprese, le loro (in)decisioni di investimento, i loro piani di produzione, la scelta dei mercati su cui puntare, l’organizzazione dei fattori di produzione e la configurazione delle supply chain.

Reduci dai tre decenni di globalizzazione e connessa illusione di stabilità, caratterizzati da una pianificazione (sic!) a brevissimo termine finalizzata all’imperativo della massimizzazione del risultato trimestrale, ci ritroviamo a navigare a vista nell’instabilità. Ma se la stabilità poteva, in qualche modo, giustificare la miopia di ieri, essere miopi oggi rischia di trasformarsi in una condanna a morte.

Incertezza, instabilità, volatilità pretendono l’adozione di una prospettiva di medio-lungo periodo, per provare a governare la rotta verso un obiettivo di sostenibilità esistenziale. Negli ultimi anni abbiamo “consumato” la parola sostenibilità, declinandola su specifici assi di significato (prevalentemente quelli ESG) e dimenticandone la dimensione precisamente esistenziale. Sostenibilità in azienda significa perseguire e sostenere politiche che permettano all’azienda stessa di continuare a realizzare il suo scopo: creare valore nel tempo. Tutte le declinazioni sono lecite, nessuna è esaustiva.

Nel contesto attuale, il passaggio da logiche di massimizzazione del risultato di breve periodo a logiche di equilibrio di risultato a medio-lungo termine è l’unica risposta sensata.

Ho trovato conferma di questa indicazione in parecchie occasioni di confronto pubblico cui ho avuto occasione di partecipare nelle scorse settimane, in contesti anche piuttosto differenti, come il Procurement Lab della SDA Bocconi, il Category Best Practices organizzato da The Procurement Italia e EY, il Finance Innovation Summit organizzato da Networking Circle. In ciascuno di questi eventi (ma mi pare si tratti di un mood diffuso) l’esigenza di trarre indicazioni utili ad orientarsi in un contesto unanimemente riconosciuto come complicato, volatile e sempre più rischioso, ha sempre trovato come risposta pragmatica quella di lavorare sulla collaborazione e sul consolidamento di relazioni stabili, per generare prevedibilità, sull’individuazione e il perseguimento di obiettivi comuni a medio e lungo termine, senza limitarsi a strategie di ottimizzazione a breve termine. L’invito che mi pare di poter cogliere come fil rouge che accomuna riflessioni svolte in ambiti anche molto diversi è proprio quello di cercare di far sistema, valorizzando le relazioni di supply chain come elementi fondamentali per la creazione di valore, operando per rendere più robusti gli ecosistemi di supply chain, mettendo in campo in modo flessibile strumenti che favoriscano una crescita equilibrata di tutti i partecipanti al sistema, privilegiando la coesione rispetto alla massimizzazione del risultato sul singolo contratto o transazione.

A conferma delle considerazioni sopra esposte, propongo l’esame di un fenomeno anch’esso molto dibattuto nelle ultime settimane, vale a dire gli accordi annunciati tra i protagonisti americani del settore Tech, relativi allo sviluppo degli investimenti in materia di Artificial Intelligence. Si tratta degli accordi realizzati, tra gli altri, da OpenAI, NVIDIA, Microsoft, AMD, Anthropic e altri, aventi ad oggetto la partecipazione agli investimenti per lo sviluppo dei modelli di AI e la realizzazione di data center, a fronte dell’impegno ad acquistare CPU, spazio in cloud ecc.

Si è molto discusso di questi accordi dal punto di vista del loro effetto sulla quotazione dei titoli delle aziende convolte e della credibilità delle previsioni di crescita sottostanti agli accordi stessi. Si è molto dibattuto sulla loro natura sostanziale di “schemi Ponzi” e sul loro utilizzo per realizzare schemi di finanziamento dell’investimento basati sui flussi di cassa generati da questi accordi e collocati sul mercato. Tutti temi reali e che meriterebbero un esame ben più approfondito. Ma c’è anche un altro livello di lettura, più pertinente rispetto alla nostra discussione: quello dell’evoluzione strategica di un ecosistema di supply chain.

Non c’è dubbio che quello delle aziende Tech americane sia un vero e proprio ecosistema rispetto allo sviluppo dei sistemi e delle applicazioni di intelligenza artificiale. Un ecosistema di forniture finalizzato a sostenere la creazione di prodotti e di mercati di sbocco, in cui tutti gli attori hanno interessi almeno in parte convergenti. Questa consapevolezza ed una prospettiva di investimenti di durata pluriennale guidano la formazione degli accordi già menzionati, che non troverebbero altrimenti giustificazione in qualsiasi logica di massimizzazione del risultato economico di breve periodo.

Questi accordi possono quindi essere letti anche come una risposta strategica cooperativa alle sfide del contesto. Si tratta, in definitiva, di accordi destinati a dare stabilità di prospettive nel medio-lungo periodo a relazioni di fornitura, generando una cornice di sostenibilità degli impegni e strumenti, anche discutibili, di finanziamento degli investimenti sottostanti. Un perfetto esercizio di pianificazione ragionata in logica di ecosistema collaborativo e finalizzata a produrre un risultato ottimale di lungo periodo per tutti i partecipanti alla supply chain.

Cosa vuol dire ragionare in termini di ecosistema collaborativo, dal punto di vista di una impresa singola?

Significa:

  • identificare le filiere in cui è inserita e i diversi ruoli che vi ricopre
  • individuare gli altri attori rilevanti di questa filiera a monte e a valle
  • strutturare le relazioni con gli attori rilevanti in modo da garantire gli approvvigionamenti, la logistica, le necessità di magazzino, gli eventuali backup, offrendo e chiedendo un orizzonte di stabilità operativa all’interno del quale collocare piani di investimento o coinvestimento
  • fissare meccanismi di pricing che possano incorporare ed eventualmente ammortizzare l’adeguamento a shock inattesi
  • offrire e chiedere meccanismi finanziari che permettano di sostenere il capitale circolante, anche attraverso strumenti condivisione del maggior merito di credito di un attore rispetto agli altri
  • introdurre strutturalmente il disegno di percorsi ESG nella cornice di rapporti pluriennali, individuando leve economiche premiali

Significa, in parole povere, ricominciare a fare politica industriale dal basso, ma nella consapevolezza che nessun attore singolo è in grado di operare in assoluta autonomia, controllando tutte le variabili rilevanti o riducendole alla sola dimensione del singolo deal.